Hacker: lo stereotipo che i media amano e la verità che ignorano

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Quando senti la parola hacker probabilmente ti vengono in mente immagini da film: un tizio incappucciato in una stanza buia, lo schermo verde pieno di codici, pronto a lanciare un “attacco informatico globale”. I telegiornali e i giornali ci hanno abituato a titoli come “Attacco hacker a Pinco Spa”, “Bloccati i servizi pubblici da un attacco hacker”, “Attacco hacker all’ospedale”. Insomma, ormai l’etichetta è appiccicata addosso: l’hacker è il cattivo della storia.

Eppure la realtà è un po’ diversa, anzi molto diversa. Il termine nasce ben prima di Internet, negli anni ’50 e ’60 al MIT, in un ambiente di studenti che giocavano con circuiti e modelli di trenini elettrici. Per loro hackerare significava trovare soluzioni ingegnose, modificare un sistema per farlo funzionare meglio, spesso in modi inaspettati. Era un po’ come smontare la bici solo per capire come girano gli ingranaggi e magari trovare un trucco per pedalare più veloce. Non c’era nulla di illegale, c’era solo curiosità.

Negli anni ’70 e ’80, con l’arrivo dei primi personal computer e le reti che iniziavano a collegare università e centri di ricerca, quella curiosità si spostò sull’informatica. Gli hacker erano gli esploratori digitali, quelli che volevano capire fino in fondo come funzionavano le macchine. Non rubavano: osservavano, smontavano, miglioravano. Nasceva così l’etica hacker, fatta di condivisione della conoscenza, sfida ai limiti e voglia di migliorare i sistemi.

E allora quando è che la parola ha iniziato a puzzare di pericolo? Tutto cambia negli anni ’80, con un mix di cronaca e cinema. Nel 1983 esce il film WarGames: un adolescente si collega ai computer militari e quasi scatena una guerra nucleare, semplicemente indovinando una password. Un film, certo, ma abbastanza realistico da mettere paura. E contemporaneamente cominciano a verificarsi i primi casi veri di accessi non autorizzati a sistemi governativi e aziendali. Molti di questi erano più bravate che veri crimini, ma i giornali avevano trovato la loro nuova parola magica: hacker.

Da lì in poi il termine venne risucchiato da un vortice mediatico. Anziché distinguere tra chi esplora e chi distrugge, tutto fu ridotto allo stesso calderone. L’hacker divenne, nel linguaggio dei notiziari, sinonimo di “pirata informatico”. Nessuno parlava più di “cracker”, che sarebbe il termine corretto per chi viola un sistema per rubare o fare danni. Quel termine era complicato, non faceva notizia. “Attacco cracker” non suona bene, mentre “attacco hacker” ha l’aria di qualcosa di epico, misterioso, minaccioso.

Il risultato? Oggi quando i media parlano di un cyberattacco, anche se dietro c’è un gruppo criminale ben organizzato, una mafia digitale che chiede riscatti milionari, usano sempre lo stesso appellativo: “hacker”. È come se ogni ladro di appartamento venisse chiamato “architetto” solo perché ha trovato il modo di forzare una serratura. Ti sembra logico?

Nelle comunità tecniche la distinzione è ancora viva. L’hacker è colui che esplora, il cracker è colui che distrugge. Esistono persino categorie ben precise:

  • White hat: gli hacker etici, quelli che lavorano per la sicurezza, testano sistemi, trovano falle e le segnalano.
  • Black hat: i cracker, mossi da intenzioni malevole.
  • Grey hat: vie di mezzo, figure che si muovono in un’area grigia, non sempre legale ma neppure sempre criminale.

Il problema è che fuori da questo mondo la parola ha perso quasi del tutto il suo significato originario. I giornalisti non parlano mai di white hat, non dicono mai “un team di hacker etici ha trovato una vulnerabilità che permetterà di rafforzare la sicurezza di milioni di utenti”. No, troppo complicato. Molto meglio titolare: “Attacco hacker, rubati i dati di milioni di persone”.

Così, lentamente, si è costruita una narrazione unilaterale: hacker = minaccia. E questo ha cancellato ogni riferimento positivo. È un po’ come se della parola “medico” parlassimo solo quando qualcuno sbaglia un’operazione, dimenticando i milioni di vite salvate ogni giorno.

Ma c’è un aspetto ancora più ironico: gli hacker etici oggi sono fondamentali per difenderci dai veri criminali informatici. Le aziende li assumono, gli stati collaborano con loro, e senza le loro scoperte saremmo costantemente in balia di virus, malware e ransomware. Eppure nell’immaginario collettivo continuano a essere visti con sospetto, perché i media hanno preferito la scorciatoia della paura alla complessità della verità.

E allora, la prossima volta che sentirai un giornalista dire “attacco hacker”, prova a chiederti: di chi sta parlando davvero? Di un esploratore della conoscenza, di un tecnico che lavora per migliorare i sistemi… o di un criminale digitale che punta solo al guadagno? Forse, capire la differenza è già il primo passo per liberarci da uno stereotipo che non ci racconta la verità.

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